Ospiti illustri: "Agent Orange" foto da qui
È mattina nella mia luminosa casa damascena, il campanello vibra, io dal piano di sopra mi affaccio alla finestra per capire chi è il visitatore. La tenda bianca sullla porta, un “ejab” che rispettosamente evita di mostrare l’interno della nostra casa dalla moschea stanziata in fronte, svela un uomo canuto che avanza un po’ goffamente, la sua corporatura è robusta, il suo pancione esprime simpatia, le sue scarpe da ginnastica bianche non portano il nome di nessuna marca; lo saluto dall’alto con un benvenuto, lui mi chiede di dove fossi originaria:-“Siciliana…”- rispondo- e ironicamente l’omone:-“ pensavo fossi cinese…” riferendosi alla lunga bacchetta che porto per tenere quieta la mia folta chioma…lo aspettavamo, è arrivato con un giorno di ritardo, la sua stanza per una settimana sarà il salone di casa mia. Il personaggio in questione è un grande fotografo, Philip Griffiths, arrivato a Damasco per visitare la figlia e amico di Sheryl.
Non conoscevo la magnificenza del personaggio sino alle mie ricerche su internet e alle chiacchierate diurne con il suo senso dell’humor. I primi giorni vedendolo leggere nel giardino non osavo disturbare quella saggia quiete che emanava, fino a che una mattina preparando il mio amico caffè lui entrò in cucina per cercare del the, fu così che misi sul fuoco dell’acqua e lo invitai ad accomodarsi…non sapevo molto di lui, ma ero a conoscenza dei suoi problemi fisici che da qualche anno lo avvolgevano in una goffa postura, ma che mai venivano menzionati dal suo sorriso.
Philip ama tanto chiacchierare con la gente e soprattutto sdrammatizzare, così quando io cercavo velatamente di mimetizzarmi tra le mura della casa lui mi rivolgeva la parola strappandomi un sorriso.
Un pomeriggio appena rientrata in casa apprendo che si sta per organizzare una specie di workshop improvvisato, ci mettiamo un po’ tutti a lavoro, recuperiamo un proiettore, un po’ di cibo che in bella vista aspetta di essere gustato su un tavolo, su un secondo tavolo 4 computer, ammasso di fili, gente che guarda foto e le seleziona e le inserisce in una slide-show che prima o poi verrà proiettata sul bianco schermo…la serata inizia, una ventina di gente accovacciata su comodi cuscini sul pavimento, noccioline e pistacchi vengono sgranocchiati. Philip è seduto su una sedia rossa, la sua camicia è di un verde intenso, le sue scarpe sono sempre quelle da ginnastica bianche bene allacciate ed è lui che introduce le sue foto sui 3 anni trascorsi li, in Vietnam. Introduce se stesso, il suo tono di voce è alto e fermo, il suo accento è del Wales, subito tutta la nostra attenzione è captata da quelle foto in bianco e nero scattate in diversi periodi in Vietnam, le ombre, le sfumature e l’impatto emozionale che scaturiscono dalle visione di queste, mi fanno riflettere su come sia possibile immortalare emozioni e renderle vive e dinamiche nell’arco degli anni. Le foto mostrano bambini deformati alla nascita con grandi teste e visi dolcissimi, bimbi imbottigliati che si abbracciano tra loro: l’umanità dei sentimenti umani sin dalle origini della nostra esistenza sulla terra, seppur senza coscienza razionale, soldati americani che cercano di soccorrere un vietcong, philip ha più volte sottolineato quanto i soldati americani ammirassero i vietcong, ancora soldati ripresi da telecamere mentre mostrano le ferite di guerra, i primi 3 uomini che iniziarono la guerra ... Una serie di foto mostravano il tentativo di ricostruire il Vietnam riempiendolo di locandine pubblicitarie di seven up giganti tra le rovine del paese con gente assopita su passeggere panchine.
I suoi libri: "Agent orange: collateral damage in Vietnam" e "Vietnam Inc" raccolgono le testimonianze e i momenti di quella guerra che ha lasciato una grande cicatrice sulla coscienza mondiale, di cui ancora le conseguenze sulla popolazione non riescono ad essere attenuate, come le deformazioni procurate dagli ordigni chimici che deturpano le nuove generazioni, parecchie foto mostravano diverse tipologie di bambini nati senza occhi o con occhi evidentissimi ma ciechi...
La macchina fotografica che portava con sé era una macchina fornita dall’agenzia, tutti i fotografi avevano la stessa macchina, cercava di esprimere ironicamente i suoi disagi in quel contesto, cioè l’ orripilante puzzo delle sue scarpe che pur lasciate a macerare con shampoo durante la notte non riuscivano a mutare la loro essenza … alla fine della sua presentazione le sue parole: "ricordatevi che se a Washington è stato costruito un memorial per gli americani morti in vietnam lungo 150 m, se un altro memorial fosse stato innalzato per i vietnamiti questo si sarebbe dovuto estendere per almeno 40 km.”
La serata è andata avanti con proiezioni di foto di autori minori e con quelle di sheryl che nel suo fotogiornalismo estremo rendono lode a coloro che ricercano da sé la verità.
Il giorno dopo a colazione ho cercato di liberare le mie curiosità ponendogli delle domande:
-“philip pensi che avendo in prima persona vissuto le atmosfere di guerra, queste abbiano causato degli effetti sulla tua psiche? Poiché ricordo di un giornalista famoso che dopo aver fotografato situazioni non certo felici in guerre in giro per il mondo adesso si ritrova con una casetta in campagna, fotografando paesaggi…”
-“ i miei studi si sono incentrati dapprima nell’ambito farmaceutico, la mia famiglia non aveva molti soldi, ma a un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di vedere da me cosa stava succedendo nel mondo, di esserne parte, di fotografare e di renderlo pubblico alla collettività…molta gente è afflitta dalla paranoia del dolore…per me è una parola inesistente, non ho mai avuto incubi dopo aver fotografato terribili situazioni, ho sempre cercato la verità…ma ti dico di più ho incontrato molti giornalisti e fotografi che non erano abbastanza forti, o che semplicemente non erano tagliati per questo mestiere: la loro voglia di fotografare e di ricercare la verità non era talmente radicata in loro..ho saputo di giornalisti impiccati all’interno di edifici, dopo essere stati in guerra, tra cui un ragazzo italiano, non era un fotografo propriamente, aveva acquistato una macchina fotografica all’aereoporto ed era partito…”
-“in Vietnam si trovava anche una giornalista italiana che da circa qualche mese è deceduta…”( il suo viso si è contratto in un sorrisino)
-"eh si la signora Oriana Fallaci, la incontrai nel bel mezzo di una sua crisi di panico, voleva tornare indietro, era un pugno di nervi, urlava contro tutti dicendo che era troppo pericoloso, le dissi di venire con me, anadammo in giro per un pò, ma non era impossibile farla ragionare, anche quando intervistò kissinger, che non si riconobbe nelle parole trascritte dalla giornalista, ecco lei interpretò i pensieri di kissinger, sostenendo di possedere uno straordinario senso di intuizione che riusciva a carpire dagli occhi della gente quello che loro pensavano in quel momento e che avrebbero detto se lei non fosse stata presente in qualità di giornalista.”
-“la fallaci scrisse anche un libro:”Niente e così sia…”
-“tutto falso, mi ricordo lei attorniata da un gruppo di giornalisti che raccontava la sua esperienza, atteggiandosi a superdonna, io stavo lì ad ascoltare e me la ridevo, lei dopo essersi accorta della mia presenza cambiò espressione e tono di voce…pace all'anima sua”
-“cosa pensi di internet e del nuovo metodo di comunicare che ai tempi del vietnam non esisteva”
-“penso che internet sia una grande rivoluzione, penso che il poter interagire tramite un mezzo di comunicazione sia una grande rivoluzione, poiché oggi come oggi la stampa è in crisi…anche il giornalismo di oggi, anche la fuoriuscita di notizie, se al giorno d’oggi un giornalista vuole andare in iraq è completamente assoggettato all’esercito, non ha possibilità di evadere e di andare in giro a perlustrare da sé, cosa che prima era possibile, per me l’importante era sempre chiedere informazioni e cogliere le testimonianze della gente, una volta seguii il viaggio di un'intera famiglia dal Vietnam alla California, immortalai le loro espressioni nel visitare un supermarket….”
Gli argomenti chiacchierati sono stati diversi, il ruolo della comunicazione, la fragilità di questa, la doppia lama e la strumentalizzazione che ne scaturisce, ma Philip sicuramente oltre ad aver dato un grandissimo contributo alla storia ha messo in moto le sue scarpe per ricercare qualcosa da sé, per partecipare al teatro della guerra e averne un’idea immortalarla per mostrarla al mondo.
Philip ha lasciato ieri la mia casa, non sono riuscita a salutarlo, resterà nella mia memoria la sua immagine quieta che legge nel cortile contornato dai fiorenti gelsomini ...buon viaggio